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Come into my life.

Non t’avevo ancor mai detto che uno dei miei primi lavori, decenni fa, era stato quello di compilatore di colonne sonore per film porno.

Fu lui a darmelo, la notte, andandosene dal bordello in cui suonavo il piano, picchiando morbido sui tasti perché i clienti che scopavano ai piani di sopra non volevano distrazioni.

Mi pagava 100 lire a brano, più mille a nastro; non era facile senza google, spotify e la grande rete trovare canzoni adatte: potevo fare affidamento solo sulla mia collezione di vecchi vinili, unici amici sinceri di quegli anni, rilucenti e neri come manti di pantere.

Una volta trovate le canzoni, poi bisognava andare alla SIAE a vedersela con gli autori, perché non tutti erano disposti, per quanti soldi infilassimo loro in gola tutti i mesi, a suonare sotto a sesso multiplo interrazziale.

Ricordo ancora un cantautore che ci concesse l’utilizzo dei diritti, a patto che la sua roba non venisse suonata in momenti di sodomia.

Anche allora la gente non stava bene. Comunque ogni volta che una canzone veniva esclusa dovevo trovare altro, poi ricominciare così, avanti e indietro, fino ad avere una scaletta di 10/12 pezzi puliti e sicuri da mettere.

Oggi ho ritrovato su spotify una certa parte dei brani di allora e ci ho voluto fare una playlist, per ricordarmi di lei.

Lui, invece, non so, é tanto non lo vedo. Magari ha fondato pornhub, diventato ricco.

Questa playlist é per te, e anche per te, chiunque voi siate.

https://spotify.link/sweQMkSEsDb

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Dove andranno ora i supereroi?

Telefonik é stato un eroe mascherato, ma anche una vera e propria un’identità collettiva, che é venuto in aiuto, nella Vignola degli anni 80, e in tantissime altre città d’Italia, di tutte le vittime di professori nevrotici, troppo esigenti e spesso sadici, familiari e parenti insopportabili, capi e colleghi di lavoro barbosi o vessatori, vicini di casa maleducati, politici imbarazzanti, reginette della scuola che ancora non volevano concederla.

Ogni buon cittadino italiano poteva entrare in una cabina e, protetto dall’anonimato, assumere, per una manciata di minuti, l’identità del supereroe terrore delle patrie notti, per poi comporre il numero del cattivo di turno da combattere e riempirlo di ingiurie o
somministrargli un benevolo scherzetto.

Telefonik é stato il perfetto esempio di eroe poliglotta, disposto a parlare bene e volentieri ogni dialetto d’Italia, anche perché tutti sanno che quando si deve ingiuriare qualcuno non c’è niente di meglio che parlare la propria vera lingua.

Celebre é rimasta la sua gag in cui telefonava alle tre di notte all’insegnante più detestato per chiedergli se non potesse inpartirgli lezioni di ripetizione, sostenendo, di fronte alle legittime rimostranze provenienti dall’altro capo della cornetta, di non aver potuto chiamare prima in quanto appena uscito dal ristorante in cui svolgeva le mansioni di lavapiatti per poter vivere.

Come Superman, Telefonik si trasformava dentro ad una cabina telefonica, ma, a differenza di Superman, era al suo interno che compiva tutti i suoi interventi, per poi uscirne di nuovo trasformato in un cittadino normale, un Clark Kent come tutti.

Ora che le cabine telefoniche saranno tutte dismesse, dove andranno i supereroi quando avremo bisogno di loro?null

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Tutta la notte fino al mattino.

L’amore è così, come una scatola di biscotti in una casa dove ci sono dei bambini, che un giorno scansi l’anta, la prendi fuori, sembra piena e invece é vuota e nessuno si é nemmeno preso il disturbo di buttarla.

Allora il tuo nuovo amico diventa il muro. Dopo due anni che passi sul divano a fissarlo, incontri una nuova persona, te ne innamori e lo fai per un dettaglio insignificante: la linea del collo che si intravede, o magari perché ha le mani così piccole che sembra una bambina.

Così, con tanta paura, vai dallo psichiatra a chiedergli se é normale innamorarsi come un ragazzino alla tua età e lui ti dice:
– «Certo, lo dice anche Jung, proprio in quel libro lì, quello giallo sulla mensola, col dorso alto più o meno un dito, vedi? Hai la mia e la sua benedizione, sono 200 euro, 250 se vuoi la fattura».

La realtà è che il pelato che balla i latini sa perfettamente che la sua dama verrà chiavata da un altro, ma lui continua a ballare uguale.

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Auguri

Il telefono iniziò a trillare presto quel giorno, tanto che lui, pur essendone felice, lo mise da parte, per potersi godere almeno la mattinata, intenzionato a rispondere a tutti più tardi, probabilmente dopo pranzo.

Verso le 10, suonò di nuovo. Vide chi era e rispose.

«Ciao, buongiorno. Volevo farti gli auguri…». La voce era chiara, argentina, e piena di un certo buon umore.

Si aspettava quella chiamata. Nel rispetto delle forme, lei era sempre stata eccezionalmente brava, davvero impeccabile, soprattutto irreprensibile.

Attese qualche istante prima di replicare.

Con voce pacata rispose, scandendo lentamente ogni parola: «Grazie. Mi fa piacere che tu mi abbia chiamato. Anche se credo di dovertene dispensare per il futuro.»

Lei non disse nulla, probabilmente si stava scocciando e indignando per quella mancanza di buon senso di lui di entrare nel merito delle situazioni quando si sarebbe potuto sbrigare la faccenda come una convenienza solo formale.

Ma ormai le formalità erano state rotte. Quando le persone giocano a far finta di niente, se una delle due si stanca e smette di giocare, purtroppo non si può ricominciare. 

Lei però negli altri giochi non era brava, per cui – cadute le formalità dentro alle quali si svolgeva gran parte della sua vita – non sapeva davvero che cosa dire.

Lui impietoso lasciò trascorrere questi lunghi istanti di imbarazzo, poi riprese.

«Credo che la mia venuta al mondo sia stata solo una disgrazia per te.»

«Sì è vero abbiamo tre magnifici figli, ma se tu non li avessi avuti con me li avresti fatti con qualcun altro che sarebbe stato molto meglio di me. E magari ugualmente io…»

Lei continuava a tacere, probabilmente dentro di lei stava montando pian piano una arrabbiatura, sia per i modi di lui, sia per quello che andava dicendo. La cosa che desiderava di più al mondo, subito dopo non aver mai avuto il proposito di fare quella telefonata, che ormai però aveva fatto, sarebbe stato riattaccare prima possibile ma, ancora una volta, sentiva che sarebbe stato sconveniente. Inoltre, nutriva un minimo di curiosità per quello che lui avrebbe detto, anche se era convinta che non sarebbe stato niente di piacevole, anzi.

«Io non ce l’ho con te, non posseggo un grammo di rancore nei tuoi confronti» riprese, dopo averle lasciato la possibilità di replicare, sapendo che tanto non avrebbe replicato nulla ma si sarebbe solo torturata non sapendo cosa dire o fare.

«Anzi, mi sento addirittura in colpa quando ti vedo ridotta così…»

Lei si offese profondamente, al sentirsi compatita e disprezzata, ma ancora non disse nulla.

Lui riprese «Io so che tu mi disprezzi. Sì è vero, mi vuoi anche bene, ci tieni a me, vuoi conservare i famosi “buoni rapporti”. Ma nel tuo intimo il disprezzo per me è profondo. Lo vedo da come mi guardi, dalle parole che scegli, da come mi scansi. E, ti stupirai, lo vedo anche da come gli altri, tutti gli altri, i diversi da te, tutti coloro che non sono te, mi apprezzano, mi stimano, mi cercano. Loro mi pagano per starli ad ascoltare, tu mi avresti potuto avere, mi avevi, del tutto gratuitamente e mi hai ripudiato».

A quel punto lei non potè più trattenersi e, con la voce piena di risentimento e con la rabbia che stava montando dentro di lei, esclamò scandalizzata «Ma no!». La sua ira non era tanto per i contenuti poco piacevoli di quella conversazione, ma per come lui fosse così incapace di restare nelle convenienze, e, in definitiva, di stare al mondo come fanno tutti, tutti gli altri, tutti quelli con cui lei parlava tutti i giorni senza risentirne, come se tutto fosse più facile. Non le interessava quello che lui andava dicendo, era più che altro scandalizzata dalla sua impertinenza «Io lo chiamo per fargli gli auguri e lui mi apre un discorso del genere» pensava. «Tra l’altro, tra poco devo andarmene ad un incontro». Non vedeva l’ora che il suo pistolotto finisse per poterlo dimenticare e lasciare che il suo mondo tornasse quello di cinque minuti prima, quando non aveva ancora, disgraziatamente, preso in mano il telefono. Naturalmente, si era già fatta la nota mentale di non chiamarlo più, anche per questo non capiva né giustificata la sua insistenza. Avrebbe voluto dirgli che aveva capito, ma sentiva che non sarebbe servito a nulla.

Lui riprese, come se lei non avesse detto niente.

«E sai cos’è strano? Che io mi sento, e mi sentirò sempre in colpa, per come sei diventata.»

Lei si spaventò, pensando «Oddio, che cosa mi dirà adesso?». Si predispose a starlo a sentire chiudendo quanto più possibile le orecchie dell’anima, senza ascoltarlo davvero; sapendo che avrebbe detto cose estremamente sgradevoli su di lei si decise a non credere a quello che lui avrebbe detto ancora prima che cominciasse a dirlo.

«So che con le mie manchevolezze, i miei limiti, le mie inadeguatezze, la mia finitezza, come uomo e come marito, ti ho fatto soffrire»

«Ma il punto non è questo, anche tu mi hai fatto soffrire, ovviamente, perché nelle relazioni, nei rapporti umani, se sono autentici si soffre anche, perché ognuno di noi è un impasto inscindibile di male e bene…»

Stava andando anche meglio del previsto, pensò lei. Forse finisce così, sul filosofico, e mi sono preoccupata per niente.

Rinfrancata, disse «È vero…»

Lui si fermò alcuni istanti, come per darle modo di continuare ad aggiungere qualcosa, anche se sapeva, in fondo, che quella era una conversazione che lui le stava infliggendo, lei la stava subendo e non aveva affatto voglia di parteciparvi. Sebbene lui non lo stesse facendo per cattiveria, anzi fosse spiacevole in ugual modo, se non ancora di più, per lui stesso, ma solo perché non riusciva più a sopportare che i loro rapporti, un tempo di amore forte e profondo, scivolassero via quotidianamente sul terreno untuoso delle convenzioni, come quelli tra due conoscenti, in una superficie che non aveva significato e di cui non riusciva a cogliere il senso, finendo per preferire una serie di spiacevoli verità a quel girargli intorno in cui si riducevano da tempo ad essere i rapporti tra loro.

«Non è dunque solo questione della sofferenza che ti ho cagionato, ma di come ti ho fatto diventare»

Si fermò qualche istante, poi precisò «O comunque non ho evitato che diventassi»

«Avevo promesso di prendermi cura di te, di renderti felice, di amarti. Di mettere il tuo bene sopra il mio e non l’ho fatto o se l’ho fatto non ci sono riuscito. Vederti così…»

Lei si spazientì e gridò «Sì ma così cosa?». 

Era in collera, indignata, scandalizzata e in ritardo per tutti i suoi appuntamenti della giornata, quegli appuntamenti di lavoro con cui ormai si riempiva la vita dopo la cessazioetro,ne, anni addi di quella familiare. Lo rimproverava per quella pesantissima conversazione, anche se sentiva che lui non la stava conducendo con lo scopo di offenderla, perché comunque se ne sentiva offesa, la riteneva gravemente inopportuna, fuori luogo, nel momento sbagliato, insomma quella conversazione la stava traumatizzando come se avesse aperto la porta di un bagno creduto libero solo per trovarvi dentro un uomo nudo seduto sulla tazza.

Ugualmente, quella porta non aveva la capacità di richiuderla, così come non riusciva a sottrarsi a quella conversazione. Una parte di sé le diceva che per quanto fosse scandalizzata, incollerita, disturbata, avrebbe dovuto, doveva ascoltare.

«È un po’ difficile da spiegare. Seguimi un attimo. Tu sei un’isterica e un’egoista, sei disinteressata ad una connessione autentica con le persone, non hai un obiettivo nella vita e navighi a vista, limitandoti per lo più ad evitare le scocciature. Non sei sincera, ma usi la sincerità come scudo per fare quello che ti pare senza curarti se ciò ferisce o meno il cuore degli altri, delle persone che ti vogliono, o vorrebbero volerti, bene. Sei presuntuosa e credi che il tuo punto di vista sulle cose e sulle vicende sia l’unico, o comunque il migliore, possibile.»

Lei non ebbe la forza di replicare. Avrebbe dovuto metter giù, ma per qualche strana ragione non se la sentiva, voleva ormai bersi quel calice fino alla fine. Magari forse anche solo per avere il diritto di arrabbiarsi definitivamente con lui per questo sgarbo intollerabile e regolare di conseguenza tutti i suoi rapporti futuri sempre con lui. 

«Ma in questo, in fondo, non c’è nulla di male. E sai perché? Perché ognuno di noi alla fine è così. Ognuno di noi a volte è egoista, presuntuoso, iracondo, presuntuoso, chiuso in se stesso, isterico.»

Lei sentiva che questa considerazione, che in apparenza sminuiva tutto, era – all’esatto opposto – solo la rincorsa che lui stava prendendo per dare la mazzata più grande.

«Il punto è che tu hai preso tutte queste cose e li hai fatti diventare il tuo sistema di vita. Mentre le altre persone sbagliano, chiedono scusa e ripartono, tu credi che l’egoismo, la presunzione, l’isterismo siano un sistema di vita, a tal punto che quando non sono isterico come te ad esempio con i nostri figli me lo rimproveri, mi rimproveri con tutta la tua convinzione di non essere deteriore come te»

«Non sei più capace di vedere la bellezza ed hai elevato la bruttezza, la divisione, la separazione a sistema di vita»

Lei lo ascoltava ma non era sicura di capire, pensava alla sua vita fatta di bei vestiti, aperitivi, fotografie, strette di mano, complimenti da sconosciuti, inchini e non era più sicura di come avrebbe dovuto guardare ad essa, da quale punto di vista. Fino a poco prima, tutte quelle cose le riempivano l’esistenza, ma ora, se avesse ragione lui, che cosa avrebbe dovuto pensarne? Era inviperita con lui per averle fatto questi discorsi, oltre che con lei stessa per averli ascoltati e in qualche modo interiorizzati.

Al tempo stesso si sentiva, nonostante tutto, in torto. Lui le stava dicendo tutto questo gentilmente, come un padre riprende un figlio che sta sbagliando, mentre lei, l’ultima volta che si erano sentiti per i figli, gli aveva mangiato la faccia e aveva litigato. Solo lei aveva litigato, lui in verità era rimasto calmo ad ascoltarla.

Si stava vendicando ora per allora? No, non c’era cattiveria nella sua voce, anzi si vedeva che quel discorso era penoso anche per lui.

Rimasero in silenzio. Lui ogni volta si fermava per darle la possibilità di replicare, anche se sapeva che lei probabilmente non lo avrebbe fatto.

Riprese «Tu non ti confronti più con me, ti ritieni completa, finita, indipendente, non bisognosa di relazione, di aiuto. Questo è il tuo più grande fallimento, ed è al tempo stesso il mio più grande fallimento perché di questo la colpa è mia. Se non sono riuscito a farmi riguardare come una guida, ad essere per te quella guida di cui ogni volta che ti sento mi rendo conto tu hai disperato bisogno, evidentemente è stato per colpa mia.»

Lei disse «Ma cosa c’entra..?» Senza che si capisse se stava parlando di sé, di lui o di cosa altro. Voleva rincuorare se stessa o lui con quella frase, o voleva semplicemente dire che non condivideva nulla di quello che lui aveva detto? Forse non lo sapeva neanche lei.

Poi lui disse «Io ti ho dato tutto quello che potevo. Con i miei limiti e i miei difetti, certo, ma tutto quello che avevo di buono nella mia vita l’ho condiviso con te»

Lei capì che non stava rimproverando lei, ma cercava di lenire il suo stesso senso di colpa per non essere stato quel buon marito che avrebbe voluto essere con lei. Pur restando scandalizzata e irritata, di fronte alla sincerità di cuore di lui, si acquietò un poco.

Lui si fece trasognante e commentò «Amare immensamente una persona e smettere completamente di farlo sono due facce della stessa follia…»

«Comunque grazie per gli auguri. Adesso vado, buona giornata. Ricordati una cosa, l’egoismo non è una conquista, ma il segno di una malattia. Sono sicuro che un giorno riuscirai a tornare a vedere la bellezza. E non c’è nessuna gloria in una donna che non riesce a tenere unita una famiglia, proprio nessuna, come in un uomo – e ora sto parlando di me – che non riesce a difenderla.»

 

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Tutti gli uccelli del mondo e il mio 🐦

Il mio uccello ha sempre avuto più buon senso di me con le donne.

Diverse volte, quando una donna non mi piaceva, piaceva invece a lui.

Ricordo lunghe litigate davanti allo specchio, in cui io gli parlavo di buon senso, gusto nel vestire, modo di fare e di parlare, mentre lui mi rimbeccava argomentando su gonne, scollature, calze a rete e possibili pratiche, peraltro solo immaginate, frutto di fantasia e a cui magari le titolari non avevano nemmeno mai avuto alcuna intenzione anche solo di pensare.

Quando decidevo di assecondarlo, tuttavia, ogni volta scoprivo, e dovevo, con dispetto, ammettere, che aveva ragione lui.

Mi scocciava molto confessarlo, anche perché lui non è certo uno di quelli che non ti fanno pesare le sconfitte. Se devo dirla tutta, mi faceva letteralmente schiumare di rabbia dover dare ragione a uno come lui, un tipo rozzo, maleducato e senza alcuna convenienza, cui nessuno vorrebbe, in fondo, rassomigliare.

Stamattina mi ha chiesto se anche lui adesso può pensarsi libero.

Mi ha fatto sorridere.

Gli ho detto di no, ovviamente. Ma anche stavolta avrebbe avuto ragione lui.

Perché il mio uccello, in fondo, é più intelligente di me.


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Un fiore.

Le piante, secolari veterane del giardino che circondavano la casa di lui come altrettanti militi in perenne missione, acconsentirono indifferenti al passaggio di lei, come a quello di migliaia d’altri visitatori dei decenni precedenti, limitandosi a lasciar tremare qualche fronda solleticata dal vento, che quella mattina di primo settembre le accarezzava dolcemente.

Lei camminava lentamente, trasognata, lasciando che l’aria fresca e tersa di quel cielo turchese e nitidissimo che vedeva sopra di lei si frangesse timida contro il suo viso, facendole ondeggiare i capelli.

  • Benvenuta – disse lui, già in attesa sulla porta.

  • Grazie…

Sorridevano entrambi. Gli occhi di lei non erano più liberi come poco prima, ma puntati ora su di lui con attenzione e piacere.

Lui la guardò in silenzio per qualche secondo, poi, facendosi serio, e scostandosi per predisporsi a lasciarla entrare, osservò, continuando con leggerezza a tenere gli occhi su di lei, abbassandoli solo all’ultimo momento per fingere un po’ di timidezza – Un giorno bisogna che ti parli di quanto sei bella, perché secondo me tu non lo sai ancora bene…

Il sorriso di lei si aprì ancora di più. 

Le piacevano i complimenti, come a tutte le donne, e lui sapeva esattamente come nutrirla. E voleva farlo, perché la felicità di lei subito dopo tornava anche a lui, come in un gioco di specchi.

  • Il solito?

  • Sì, grazie – rispose lei, con soddisfazione, rincuorandosi, mentre si accomodava felice al tavolino del soggiorno, ripetendo un gesto evidentemente ormai consueto. 

Chissà perché una tazza di caffè toglie sempre una parte di agitazione alle persone: la scienza dice che il caffè agita l’uomo, il cuore invece sa che – all’esatto contrario – l’uomo che si siede davanti ad una tazzina ritrova, almeno per un poco, la pace. 

 

Quando i caffè furono pronti, lui li portò sul tavolo e si sedette, contento, a sua volta, accanto a lei.

Lei aveva un naso non proprio regolare, ma sapeva portarlo in modo eccellente. Anche i difetti, infatti, vanno saputi mostrare e persino la bruttezza, se ben portata, è non così di rado più attraente di tante bellezze che promanano da forme regolari, ma, in fondo, piuttosto banali e, pertanto, sciapide. Tutto dipende da cosa una donna, o un uomo, riescono a esprimere, a comunicare. Niente, in fondo, rende affascinante una donna come un bel difetto ben portato.

Lui, dal canto suo, piaceva perché aveva un tasso molto basso di ipocrisia, di – si potrebbe definire – convenzionalità. Ognuno di noi, checché se ne dica, non uscirà mai dalle sue formalità, dalle sue convenzioni, da quel minimo di ipocrisia che è inevitabile avere nella vita di tutti i giorni. Ebbene, lui riusciva a tenere tutto ciò al minimo,; lei non aveva mai conosciuto una persona che fosse più sincera e diretta di lui, senza, beninteso, mai offendere nessuno, ma prendendosi sempre cura del cuore di tutti. Nelle situazioni che avrebbero potuto ingenerare imbarazzo, e nelle quali la pressoché totalità delle persone si cavava d’impiccio con una piccola bugia bianca, e un sorriso artificioso, lui si limitava a sorridere, guardando il suo interlocutore, ammettendo appunto la difficoltà della situazione e coinvolgendovelo direttamente, come per dirgli «Adesso dovrei cavarmi dalle difficoltà dicendoti una bella bugia, ma non ne ho voglia e ho troppo rispetto di te per farlo». 

Stranamente, il più delle volte funzionava. Anzi, a lei lui piaceva proprio per questo, per la sua semplicità, per la sua coerenza e per il fatto di non spendere mai una parola in più di quelle che erano necessarie, specialmente non dire mai bugie solo per rispettare convenzioni sociali che, per lui, sembravano non esistere. 

Lei trovava questo suo comportamento molto maschile, e quindi attraente, molto originale, quindi divertente, e, infine, più gestibile, perché con lui era facile avere una connessione autentica e sapere più o meno sempre che cosa stesse pensando. Il vero miracolo era che riusciva a fare tutto questo restando morbido col cuore delle altre persone, senza un pizzico di volgarità, anzi mostrandosi amabile con tutti. 

Era genuinamente spontaneo, aveva solo trovato una via diversa che gli consentiva di comportarsi, nonostante ciò, con delicatezza verso chiunque, perché era considerato una persona amabile ed era generalmente benvoluto, considerato simpatico e persino più intelligente di quello che, in realtà, non fosse – ognuno di noi tende a considerare intelligente tutte le persone che trova simpatiche. 

 

Bevuto il caffè, senza dire nulla lui prese le tazzine e le posò nel lavandino, poi tornò felpato vicino a lei, le prese la mano e la portò dolcemente verso l’alto per farla alzare, dopodiché, con altrettanta dolcezza, gliela lasciò e sorridendo iniziò a voltarsi verso la camera da letto. Lei accennò a seguirlo disegnando a sua volta un sorriso timido, che conteneva un piccolo, ma prezioso, rimasuglio di pudore, come piaceva sia a lui che a lei quando stavano avviandosi all’amore.

 

«Come va con tuo marito?»

Ogni tanto, dopo l’amore, quando erano più connessi del solito e diventava meno difficile parlare degli argomenti spinosi, lui glielo chiedeva.

Lei provava un po’ di fastidio per quelle domande, ma era anche vero che lui, in diverse occasioni, l’aveva aiutata nel relazionarsi proprio col marito, facendola riflettere su diversi aspetti che avevano migliorato la comunicazione tra loro. Quella volta, però, la domanda la angustiò più del solito.

«Siamo separati da sei anni» rispose, con una leggera punta di stizza.

Lui non disse niente, capendo che lei non aveva voglia di affrontare l’argomento.

Si diresse di nuovo verso il soggiorno, invitandola con lo sguardo a seguirlo. Lei gli andò dietro e si sedettero di nuovo al tavolino, per un altro caffè.

Mentre lui lo preparava, lei, che provava ancora una punta di contrizione, gli disse «È difficile per me, lo sai…»

Lui si volse e la guardò comprensivo, senza dire nulla.

Lei allora si arrese: – «E va bene, parla. So già che me ne pentirò, ma parla, per favore, voglio sentire quel che hai da dire». La sua voce era curiosa e rattristata assieme, come se fosse davvero interessata a quel che lui aveva da dire, ma sapesse, al tempo stesso, che ascoltandolo avrebbe sicuramente sofferto.

Lui la guardò ancora un po’ senza dire niente. In questo – guardare le persone in silenzio senza provare il minimo imbarazzo – era molto bravo; era come se riuscisse a stare dentro alla lentezza e a portarci dentro tutti i suoi interlocutori, come se aprisse una bolla fatta di delicatezza, prudenza, piccoli passi, tocco leggero, ci andasse a stare dentro e vi facesse accomodare subito dopo tutte le persone che parlavano con lui.

«Ma niente» esordì, chiamandola per nome. «Sai come la penso e tutti e due sappiamo che su questi temi siamo dissonanti, siamo asimmetrici. Io adesso ti dirò di nuovo come la vedo, tu ora non te la prenderai con me, sarai comprensiva, perché io ti dirò tutto questo guardandoti dolcemente negli occhi, così potrai sentire che sono sincero. Quando sarai a casa, però, magari non subito, ma tra due, tre giorni, ripenserai a me, a quel che ti ho detto, e ti verrò in uggia, il mio discorso ti farà dispetto»

Aveva ragione. Le idee, i modi diversi di sentire, dividono. Quando si fa l’amore ci si connette, quando ci si guarda in faccia si resta uniti, si possono affrontare anche i discorsi che dividono. Quando poi ci si separa davvero, la mente lavora, lavora, lavora fino ad aprire una divisione, una spaccatura, perché la mente è egoica, è la lusinga e la presunzione del diavolo. Allora l’uomo non capisce come abbia potuto accettare certi discorsi non condivisibili e se la prende con la persona che glieli ha manifestati, non tanto per il contenuto di quei discorsi, ma solo perché quella persona ora è lontana.

Non bisognerebbe mai confondere le idee con le persone: le idee che non si condividono vanno sempre combattute, le persone, all’opposto, sempre abbracciate. Anche perché cosa sono, in fondo, le nostre idee, se non le proiezioni, il precipitato, il cascame delle nostre ferite? Parliamo delle nostre opinioni come se fossero delle conquiste, come se in esse ci fosse la nostra identità, mentre invece c’è solo quella più piccola parte che è il nostro vissuto, raramente ci sono le nostre scelte, tutto al contrario di quello che pensiamo. E la nostra identità è nelle nostre scelte, che possono cambiare ed essere diverse volta per volta: un uomo considerato cattivo può scegliere per il bene e un uomo generalmente considerato buono può arrivare a scegliere il male, per questo non ha mai senso parlare di uomo buono o cattivo, si può parlare al massimo del suo passato sino ad oggi…

Lei, come riflettendo a voce alta, disse, con voce neutra «Pensa te se dovevo trovarmi un uomo con cui fare l’amore che vuol farmi tornare con mio marito…». Poi sorrise di una situazione così curiosa e originale.

Anche lui sorrise.

«Te l’ho già spiegato…» – ricominciò – «Io non voglio che tu torni con tuo marito. So che adesso tra l’altro è una ipotesi che consideri di pura teoria, fantascienza, incredibile e mai verificabile. Quello che penso io è che sarebbe bello che tu fossi felice con lui e con i vostri figli… Ovviamente, se tu tornassi con tuo marito io dovrei farmi da parte e questo mi dispiacerebbe molto, perché sono molto legato a te, ma sarei al tempo stesso molto felice per tutti voi…»

Lei lo guardò con calma, lui si lasciò squadrare per bene. Era un discorso che non aveva senso, ma lui era sincero. Come si spiegava? Lei non riusciva a capire.

Lui uscì un attimo in giardino. 

Si chinò verso un vaso, colse un fiore, tornò da lei. 

Si portò il fiore sotto al mento e, tenendolo là, poco sotto la bocca, iniziò a guardarla sorridendo, continuando poi a sorriderle e a tenere gli occhi su di lei, che, frattanto, non capiva, ma né protestava, né distoglieva lo sguardo dal viso di lui, dal suo sorriso e dal suo fiore impugnato come un manifesto, una bandiera, uno slogan, proposti con la delicatezza e la gentilezza di un sorriso.

Dopo un po’ che lo guardava, ad un tratto lei capì. 

Comprese che ci sono cose che non si spiegano con le parole, che non si possono comprendere con la mente. 

Nel silenzio, quando le parole si sono ormai ritirate, si può scendere nel cuore, dove non ci sono vocaboli, ma solo icone, segni o simboli, dove il passato, il presente e il futuro non esistono più, o non ancora, perché laggiù, nel cuore, vivono persone scomparse anni addietro, insieme a persone che non abbiamo ancora incontrato, mentre magari mancano le persone che, invece, abbiamo davanti. 

Lui le voleva bene davvero e metteva il bene di lei sopra al suo, restando coerente con le sue idee e senza cederle per adottare le sue, o far finta di adottarle senza crederci. Era autentico e, per questo, contraddittorio e per molti versi incomprensibile, proprio perché non era un personaggio, un ruolo – l’amante, il fidanzato, l’amico, il confidente – ma una persona vera, con le sue idee, le sue ferite, i suoi limiti, la sua finitezza, la sua inadeguatezza, ma, nonostante tutto ciò, la sua capacità di amare.

Non tutti possono mettersi un sorriso sincero in faccia, non tutti possono brandire un fiore come se fosse la più potente spada.

 


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– Allora, com’è andata con la tipa, Commetechiamme?

  • Insomma, Bellicapelli…
  • Racconta.
  • Siamo usciti, l’ho portata a cena, abbiamo parlato.
  • Dai, mi pare bene, Commetechiamme.
  • Sì, fino a lì molto bene. Poi lei a un certo punto lei mi ha detto «Del resto, non puoi vivere una favola se non hai il coraggio di entrare nel bosco!»
  • E tu cosa le hai detto, Commetechiamme?
  • Io, Bellicapelli, le ho detto «Ma io é proprio là che voglio entrare!» – E lei?
  • Mi ha rovesciato il bicchiere addosso e se ne é andata.
  • Uhm… E perché questo, secondo te, Commetechiamme?
  • Non lo so, Bellicapelli. Secondo me se l’è presa perché aveva già deciso di darmela e così le ho rovinato la sorpresa.
  • Temo che tu abbia ragione, Commetechiamme.
  • Lo credo anche io, Bellicapelli.
  • Non si può vincere sempre, Commetechiamme.
  • Purtroppo no, Bellicapelli.
  • La prossima volta statti zitto, Commetechiamme.
  • Questa é vera saggezza, Bellicapelli.
  • E vedrai che nel bosco ci entri.
  • Buonanotte, Bellicapelli.
  • Buonanotte, Commetechiamme.
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Ospedale.

1
«Buongiorno. Per favore, la camera 104?»
«Al secondo piano. Appena esce dall’ascensore, il corridoio a destra»
Aveva appuntamento alle sedici precise. Lui non aveva voluto che si presentasse senza appuntamento, altrimenti sarebbe andata anche prima.
Non stava molto bene, lui, e aveva espresso il desiderio di incontrarla di nuovo.
La vide non appena si affacciò alla porta della stanza. Lui stava sul letto, appoggiato contro la testata dove aveva sistemato il cuscino, che quale infermiera benevola gli aveva sprimacciato da poco, ed era intento a conversare piacevolmente con il suo vicino di stanza.
Lui era una delle poche persone cui fosse rimasto il piacere della conversazione, che non lo aveva delegato alla televisione o ad altre abitudini: amava ascoltare e replicava sempre amabilmente, come se non fosse interessato ad altro che a quegli scambi, anche quando le tematiche non erano propriamente alte o particolarmente interessanti, ma riguardavano minuzie della vita quotidiana.
Era probabilmente per quello che si era fatto voler bene e che era giudicato da tutti un uomo amabile come ormai pochi.
Quando incontrava una persona, per prima cosa ne cercava il viso per squadrarlo sorridendo dolcemente, facendo una prima, fondamentale scansione dello stato emotivo del suo interlocutore. Poi non se ne dimenticava, di quella persona, come fanno tutti, ma finché era presente le dedicava tutta la sua attenzione, come se lei fosse la cosa più importante o comunque se la sua presenza fosse importante. Sembrava, anzi era genuinamente interessato a lei, alla sua vita, a differenza di tutti gli altri, che evidentemente la sussumevano nel grigiore generale, o non se ne accorgevano, tutti presi dalle loro vite, che credevano corse a ostacoli o rebus inestricabili. Oggi purtroppo sembra avere ragione solo chi corre, ma lui aveva sempre rifiutato questo assunto e si era fermato. Era devoto alla lentezza, diceva che solo con la lentezza e nella lentezza si possono ascoltare le persone ed accoglierle.
Lei era bellissima. Alta, carnagione scura, giovane. Grandi occhi neri, forse una magrebina. Un seno prosperoso. Sorrise, con una punta di imbarazzo. Lui la guardò subito in faccia, come faceva sempre, sorrise di gusto – era davvero felice di vederla – e la invitò ad entrare.
Si era acconciata per quello che, a quanto si diceva in città, avrebbe potuto essere l’ultimo saluto ad una persona con cui aveva condiviso la propria intimità, non solo fisica. Con lui aveva parlato infinite volte della sua vita, dei suoi errori, delle sue speranze. Era quasi sempre dopo l’amore che la serata, il pomeriggio, il tempo con lui incominciava. Dopo l’amore, che … usavano per connettersi ed entrare in un’altra dimensione, in un’altro spazio e tempo di cui facevano evidentemente parte solo loro, potevano parlare e dirsi tutto quello che volevano. Era come se fossero partiti su un tappeto volante, dal quale guardavano alle loro vite dall’alto, da lontano.
E come sapeva ascoltarla, lui. Non la giudicava mai, nemmeno quando lei gli raccontava pensieri o azioni poco nobili della sua vita, che però le appartenevano, facevano di lei quello che era. Erano i suoi lati oscuri, li aveva accettati, ma non sarebbe riuscita a parlarne con nessun’altra persona, solo con lui. Perché solo lui ascoltava senza dire nulla, senza proporre idee, innovazioni, cambiamenti. Soprattutto, dopo averla ascoltata esporre le cose di cui lei si vergognava di più, lui continuava a trattarla esattamente come prima, a volerle bene come e più di prima.
Ma la cosa che lei adorava di più di lui era che lui non le offriva, non le proponeva mai soluzioni. Lei si limitava a raccontargli la sua vita, una vita imperfetta, piena di errori, di cose andate in un modo ma che avrebbero potuto andar meglio, o esser gestite meglio, di ricordi, di rimpianti, di scelte non sempre azzeccate o condivisibili.
Quando parlava di queste cose con gli altri, amici, amanti, parenti, amiche, del cuore o no, invariabilmente si sentiva proporre soluzioni alternative oppure si sentiva dire cose come «la prossima volta dovresti» oppure «la prossima volta cerca di» o «perché non hai pensato a». Una volta, addirittura, confidandosi con un uomo con cui era entrata in intimità si era persino sentita dire «Ti ho già detto una volta come devi fare in queste situazioni, se non mi ascolti allora che cosa mi vuoi sempre raccontare queste cose da fare? Parlare con te è inutile».
Con lui no, parlare non era mai inutile, anche se lui sembrava solo limitarsi ad ascoltare. Lei però sapeva, quando iniziava a parlare, che quando avrebbe finito – di parlare – si sarebbe sentita meglio. E la cosa strana era che lui non faceva nulla se non ascoltare. In fondo, era proprio per questo che si sentiva meglio, perché lui ascoltava. Gli altri non ascoltavano, dopo due minuti pretendevano di «avere capito» e volevano «fornire soluzioni», come la conversazione fosse un juke box: uno infila una monetina e l’apparecchio inizia a suonare una canzone. Ma una conversazione tra due persone assomiglia più a un duetto, ognuno suona la propria canzone e l’altro non gli risponde dicendo di correggerla, perché ogni canzone è bella così, e si limita a suonare la sua.
La sincera, autentica, attenzione di lui la faceva sentire importante o almeno le faceva sentire che lui le voleva bene davvero, anche se era evidente che una buona parte del suo interesse fosse sessuale e non avesse intenzione di disegnare una relazione impegnata. Anzi, lui le aveva detto più volte espressamente che non se la sentiva di legarsi di nuovo ad una donna, laddove «di nuovo» significava dopo la sua separazione.
Lei si chiedeva come mai avesse potuto separarsi un uomo del genere, che la faceva sentire così bene semplicemente ascoltandola ed accogliendola. Glielo aveva anche chiesto e lui, con la sua consueta genuinità, le aveva detto che prima della separazione non era una persona così evoluta come ora, ma un uomo molto più egoista, mentalizzato, centrato su se stesso e non così aperto verso gli altri, incapace di una relazione autentica, ma più che altro alla ricerca di un suo «pubblico». Dipingeva quella versione deteriore di se stesso senza vergogna, senza rimpianto, come tipico di chi ha attraversato un processo di evoluzione autentica.
In quel preciso momento, mentre si avvicinava a lui, la colse questo pensiero «Non troverò mai più un uomo simile, un uomo che mi ascolta così, non mi giudica, non mi vuole diversa, non vuole darmi soluzioni. Non avrò mai più dove riporre il mio cuore». In fondo, è sempre anche per egoismo che ci dispiace della morte degli altri.
«Dolce anima mia» – mentre era quasi ormai al bordo del letto, lui riuscì a dirle le parole che non le aveva mai detto.
Lei si commosse e gli occhi le si inumidirono. Non sapeva cosa dire, ma sapeva che con lui non c’era bisogno di parlare per forza, si poteva benissimo anche tacere. Lui teneva le braccia sopra al lenzuolo, lei appoggiò la sua mano contro quella di lui, continuando a guardarlo. Lui sorrise, ricambiando lo sguardo.
«Sono felice di avere fatto qualche tratto di strada insieme a te» disse lui, lentamente, con convinzione e appena una punta di commozione nella voce.
Lei accennò un gesto di assenso, sorridendo e scuotendo appena il capo.
Quello era il suo commiato. Apparentemente banale, in realtà non lo era. Chi può dire di aver davvero camminato insieme alle persone che gli sono state accanto nella vita? La maggior parte di noi vive concentrata su se stessa, senza avere una connessione reale con i sentimenti delle altre persone, che sono solo oggetti che scivolano accanto, non percepiti, non visti, non sentiti… L’uomo di oggi raramente cerca una connessione autentica con gli altri, molto più spesso cerca semplicemente un suo… pubblico, a servizio del suo egoismo e della sua centratura egoica. Quelle rare volte che una persona ti fa davvero compagnia nei tuo sentimenti, ti comprende senza giudicarti, ancor meno di quello che ti giudichi già da solo, ti ascolta davvero, inietta una tale leggerezza nella sua vita.
Ecco, la parola chiave era quella. Riusciva, lui, ad essere leggero, ad avere un tocco delicato, anche adesso, che stava morendo. Sembrava se ne andasse così, solo per un attimo, o per la stagione, come gli uccelli, che poi tornano l’anno successivo.
«Chissà se ci rivedremo, e dove» – pensava lei – «ma se lo faremo, fosse anche tra migliaia di anni, sarà come non esserci mai separati nemmeno per un attimo. Riprenderemo a parlare ed ad ascoltarci come se ci fossimo lasciati pochi minuti prima.»
Lui le prese la mano, se la portò alla bocca e ve la premette contro, poi la riportò giù, in basso, sulla coperta e, continuando a tenerla ristette così, senza dire nulla.
La camera bianca odorava di fenolo, a lei sembrava che lui meritasse, per i suoi ultimi giorni, una sistemazione più nobile, pari a quella della sua anima, e non un’anonima stanza, uguale a tutte le altre, e financo – a ben pensarci – ad uno stereotipo, condivisa con un’altra persona. Lanciò uno sguardo e abbozzò un sorriso all’altro degente, che lo ricambiò con inusitato interesse, atteggiamento che le fece avvertire una punta di inquietudine. Nel corridoio tinniva un carrello metallico di medicinali, fiale e attrezzature trascinato da un’infermiera.
Lui continua a tenere la mano di lei con la sinistra. Ad un certo punto, la prese anche con la destra e la scosse leggermente. Significava che la visita era terminata. Lei avrebbe voluto parlare, sia della vita di lei, sia, soprattutto, della morte di lui, come avevano sempre fatto, affrontando qualsiasi argomento senza difficoltà, anzi con autentico divertimento, senza ostacoli, ridendoci sopra, ridendosi anche in faccia. Capì che, se fossero stati di nuovo soli, a casa di uno dei due, lo avrebbero persino fatto, ma in quel luogo, in quel momento, non sarebbe stato possibile, avrebbero dovuto tenere piegate le ali del dialogo, ormai non ci sarebbero più state altre conversazioni del genere tra loro.
«Dai. Mi ha fatto piacere incontrarti, ma ora devo andare» – disse lei. Lui sorrise e le strinse di nuovo la mano, per diversi secondi, senza dire nulla. Poi replicò: – «Torna a trovarmi nei prossimi giorni, se saremo soli potremo parlare un po’. Però ricordati di prendere sempre prima appuntamento per favore, non voglio che rischi di non trovarmi o di non essere pronto…»
Lei sorrise, era abituata a queste sua stranezze, era come riconoscerlo ogni volta. Lasciò la mano di lui, poi si allontanò camminando all’indietro per continuare a guardarlo e a sorridergli fino all’ultimo. Poi scomparì dietro alla porta aperta.
2
– «Adesso mi devi spiegare…» Era il suo compagno di stanza che, sorridendo divertito, gli aveva parlato.
Lui gli aveva sorriso indietro senza dire nulla.
Così lui continuò – «Questa è la sesta donna che viene a trovarti. A tutte hai detto le stesse cose, le stesse parole»
– «Dolce anima mia!» e sorrise di nuovo, quasi soffocando una risata. «ormai so già che lo dirai e anche più o meno quando lo dirai. Specificò continuando a sorridere «Quello che mi stupisce ogni volta, a questo punto, è che tutte si illuminano, come se fosse vero, come se tu fossi sincero.»
Poi concluse «È proprio vero che quello che vogliono da noi le donne sono solo bugie…»
«Ma io sono complemente, del tutto e autenticamente sincero, te lo garantisco» rispose lui.
L’altro scoppiò in una risata.
Poi lui continuò «Fai come vuoi, io sono sincero, io ho voluto bene davvero a tutte le mie donne.»
– «Anni fa, ho avuto un periodo difficile, è come se loro fossero arrivate ad aiutarmi, richiamate da una forza invisibile. Non te lo so spiegare bene nemmeno io, ma ora sento che io appartengo davvero a tutte loro…» Rimase in silenzio per qualche istante poi concluse «Io sono di tutte quelle donne, loro sono le mie amazzoni, mi hanno tenuto in vita, si sono prese cura di me quando ne avevo bisogno e io ora sono legato a loro per la vita»
Poi si rabbuiò e aggiunse, con un sorriso triste «Per quel poco che me ne rimane».
«Fai come vuoi, io non ci credo, non mi pare possibile amare davvero così tante persone» disse il compagno.
«Eppure è così, chi non ha vissuto quel che ho vissuto io non può capire. Loro mi hanno fatto sentire uomo nei momenti in cui ne avevo bisogno, io questo non lo posso dimenticare. Io le ho ascoltate, considerate, dato loro attenzione quando a loro volta ne avevano bisogno, le ho fatte sentire donne.»
«Ma non ti sei affezionato davvero a nessuna di loro, nessuna ti ha fatto venire voglia di sceglierla, di eleggerla a compagna, di avere con lei un rapporto davvero speciale»
Lui rimase in silenzio per un po’. Quell’osservazione, che, a quel punto, appariva persino banale, lo aveva colpito.
– «In realtà, c’è stata una tra loro alla quale mi ero davvero arreso, con la quale sarei andato fino in fondo»
– «E quale sarebbe, delle sei?»
– «Nessuna. Non è ancora venuta, non so nemmeno se verrà, non credo. Adesso ha una sua vita, appartiene ad altre persone, appartiene a quella vita. L’ho lasciata andare tempo fa, con dolore, ma senza screzi, senza litigi, con tanto affetto, con la consapevolezza che ognuno di noi due era chiamato a qualcosa di diverso. Tutti e due ci amavamo, io non l’ho mai detto a lei, e lei non l’ha mai detto a me, ma solo perché non ce n’era proprio bisogno, sarebbe stato completamente pleonastico. Però nella vita ci sono cose più grandi dell’amore o, se vuoi vederla in questi termini, non sempre l’amore basta. Io e lei eravamo chiamati a due cose diverse»
Si fece di nuovo silenzioso, meditabondo. Poi sorrise stancamente e, dopo qualche istante, aggiunse «Io, anche se allora non lo sapevo ancora, a morire. Lei a vivere».
3
Tre giorni dopo, sulla soglia comparve una donna molto giovane. Alta, coi capelli lunghi, aveva un paio di occhi che non si potrebbero definire in altro modo che estremamente eloquenti.
Lei, quei suoi occhi, li accendeva, spegneva, metteva sotto traccia, cambiava in continuazione, a seconda del suo umore, di quello che, evidentemente, le balenava in quel momento nella mente e, soprattutto, nell’anima.
Il primo sguardo che gettò nella camera era divertito e, quando lo vide, subito si accese ancora di più. Riuscì perfino a ridere, piegando la testa verso il basso come facendo finta di vergognarsene un po’.
Lui non la scorse subito, impegnato com’era a cercare qualcosa nel cassetto del comodino, che era collocato dal lato opposto. Lei gli si avvicinò senza dire nulla, quando fu a lato del letto tuttavia lui ne percepì la presenza, allora la sua reazione fu quella di lasciar perdere il comodino e accasciarsi, sorridendo, sul letto in cui già si trovava.
Lei aprì ancora di più il suo sorriso e continuò a guardarlo senza dire nulla. Lui era tutto sotto alla coperta, perché aveva un po’ freddo, ma soprattutto perché era rimasto sorpreso di vedersela davanti e quella sensazione lo aveva un po’ rallentato, quasi immobilizzato, come tutte le volte in cui si trovava di fronte a qualcosa di più grande di lui: non che avesse paura ma al momento sentiva che era preferibile restar fermo, ad ascoltare, a vedere che cosa sarebbe accaduto.
Lui aveva anche le mani sotto alla coperta, così lei ci infilò una delle sue per prendere una di lui. Tenendolo per mano, si guardò indietro per vedere se c’era a portata una sedia, che in effetti c’era, così, senza lasciarlo, un po’ sedendosi, un po’ tirandola verso di sé col sedere, ci si adagiò sopra.
Lui era pieno di felicità e di dispiacere al tempo stesso. La felicità era per lei, il dispiacere per il fatto che loro due erano là e non altrove. La stava guardando con questi due sentimenti, ma lei aveva capito, anzi probabilmente lo sapeva già da prima di entrare, quali sarebbero stati i sentimenti di lui, e di lei stessa pure.
Nessuno dei due diceva niente. La coperta sobbalzava un poco all’altezza del petto di lui, segno che le due mani, là sotto, stavano accarezzandosi dolcemente ma in continuazione.
Ad un tratto lei impallidì leggermente e, al tempo stesso, il suo viso si coprì di chiazze rosse. Lasciando andare lentamente la mano di lui, senza dire nulla andò dal comodino e si mise a frugare prima nel cassetto e poi nello sportello. Trovò un pacco di biscotti ancora intero, lo aprì e ne mangiò voracemente tre, quasi ridendo mentre lo faceva, piegando la testa verso il basso come per nascondere il viso. Prese il pacco, tornò a sedersi dov’era seduta prima, appoggiò il pacco a terra, rinfilò la mano sotto la coperta e riprese a stringere quella di lui.
Lui, che faceva sempre storie per mangiare, accennò con gli occhi al pacco dei biscotti, lei ne prese uno e glielo ficcò in bocca. Lui iniziò a masticare soddisfatto, sorridendo con tutto il volto, come nessuno là dentro lo aveva mai visto sorridere prima.
«Grazie che sei passata». Lei annuì e gli serrò di nuovo, con forza e dolcezza insieme, la mano.
Più tardi se ne sarebbe andata e quelle furono le uniche parole pronunciate in tutto quell’incontro.

 


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Arriva lui.

Caddi addormentato sul divano.

Non so quanto dopo, un suono mi svegliò. Uno spostamento d’aria in cucina, con un cigolìo sordo. Difficile divisarlo nel dormiveglia. Com’è, come non é, fatto sta che pensai al frigo. Anzi no, non lo pensai, lo vidi con l’immaginazione, in testa, una figura in un lampo, bella grigia, più vera della realtà.

Di chi fosse la mano che lo aveva aperto – sarebbe stata una domanda interessante per uno sveglio, ma io non lo ero.
Non si sentì più nulla. Almeno credo, su questo non giurerei.
Abbassai il capo – che, senza avvedermene, avevo alzato pochi millimetri, come per ascoltare meglio – e il sonno mi fece di nuovo suo.

Adesso non mi chiedere quanto tempo passò da allora: io vivo sempre nel presente. Di fatto, ad un certo punto, un odore di grasso bruciato mi fece di nuovo aprire gli occhi.

Fissai il pavimento, come avesse contenuto una risposta, e mi chiesi cosa stesse succedendo. E chi ci fosse nella mia cucina.
Mi chiesi, soprattutto, se avessi dovuto occuparmene. É mio privilegio ignorare quasi tutto quello che accade – almeno io la vedo così.

Guardai ora la spalla del divano, ora il pavimento. Per diversi minuti, incerto sul da farsi.
Dalla cucina cominciò a venire un cinguettìo di posate.

Mi levai. Scesi dal divano. Mi diressi di là, in cucina, col mio consueto incedere calmo. Al mio posto, nel mio piatto, fumanti carni eburnee.

Mangiai un boccone, poi lo guardai.

Tenendo gli occhi fissi su di lui, gli domandai col pensiero:

– “Quand’è che crepi, che voglio diventare più famoso di Achiko?”.

Lui mi sorrise, come avesse capito.

Un po’ mi dispiacerebbe per lui, ma i padroni di cani sono come le ex mogli: meglio da morti.



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Il mio Doppio.

1.

Tutto cominciava dal divano.

Prima di quel momento, non c’erano problemi.

Ce ne stavamo tutti e due, io e il mio Doppio, comodamente seduti là, sul divano appunto, intenti a guardare dentro ad uno schermo, del cellulare o della televisione, assenti e persi, ma perfettamente congiunti, uniti centimetro per centimetro di pelle. Geometricamente congruenti nelle tre dimensioni.

I problemi iniziavano solo dopo, quando veniva l’ora in cui io dovevo andare a prepararmi per uscire. Allora io pian piano – ed ero già un po’ timoroso, perché sapevo già che cosa mi avrebbe risposto – dicevo:
• “Devo andare a prepararmi…”
• “Vai pure, io resto qui” mi rispondeva placido sorridendo.

E sin da quel momento mi faceva incazzare come un animale, tanto che l’avrei strozzato dal gran che non lo potevo sopportare. Quel fesso. Mai una volta che venisse con me…

Ma era proprio allora che accadeva, che io, alzandomi, mi staccavo da lui, e il mio Doppio restava, sorridendo, sul divano.

Anzi, quell’animale si stravaccava ancora di più, bello soddisfatto, come se adesso che non c’ero più io – che però, anche quando c’ero, ero perfettamente congruente con lui – ci fosse stato più posto!

Era evidente che mi voleva prendere per il culo, quello stronzo. Eppure avrei dovuto essere io quello felice: io uscivo con una donna, lui restava a cazzeggiare sul divano, ad annoiarsi, da solo in casa come un povero coglione.

Il siparietto vero e proprio iniziava pochi istanti dopo, non appena avevo raggiunto il bagno.

“Lavati i denti, animale!” mi gridava ridendo quello stronzo dal divano.

Mi faceva incazzare, ma io non rispondevo niente e continuavo a fare le mie cose.

Lui se ne stava zitto per un po’, poi all’improvviso gridava di nuovo: “Ricordati bene le ascelleeeee, altrimenti quella poveretta hahahahah” e finiva ogni volta con una risata.

Io continuavo a prepararmi e mi commiseravo guardandomi allo specchio, pensando “Ma tu guarda se mi doveva capitare un Doppio così cre-ti-no!”

Poi di nuovo il silenzio veniva lacerato da lui che dal divano urlava ridendo “Mettiti bene l’olio di cocco sul cazzo!”

In una occasione simile, una volta non ce l’ho più fatta e gli ho gridato indietro “Ma mettitelo te, che fai schifo e hai pure la candida!”. Al ché lui non ha fatto altro che ridere ancora di più, come un cavallo, sembrava non dovesse smettere più.

Finito, comunque, di prepararmi, tornavo davanti a lui.
• “Come sto?” gli chiedevo.
• “Ma che ti importa, sono domande da maschio queste? E poi quella poveretta non vede l’ora di dartela, vai, cammina, sparisci, lasciami riposare, che sono stanco…”

Rispondeva sempre una cosa del genere, così mi incazzavo sia con lui, per essere il solito stronzo, sia con me, per non essermelo ricordato, che non avrei dovuto chiedergli niente. E, non da ultimo, anche perché aveva più ragione lui di me.

2.

Uscivo. Andavo a prenderla o ci trovavamo al ristorante, ma mentre guidavo continuavo a pensare al mio Doppio: “Chissà quel maiale sul mio divano che cazzo starà facendo… mica si prende la briga di uscire, di vivere, sta sempre là, fa lo spiritoso, prende per il culo gli altri e ride. Che deficiente!”

La incontravo, era bella, a volte bellissima, vestita e curata per piacere ad un uomo e quell’uomo ero io. Io però pensavo a lui, al Doppio, a quando glielo avrei raccontato, per farlo schiattare d’invidia, forse anche finalmente per convertirlo, così magari la prossima volta mi avrebbe accompagnato, sarebbe venuto con me senza restare a casa sul divano. Ma già sapevo che era tutta una mia illusione, che a lui non sarebbe fregato più di tanto, che non c’era verso di fargli cambiare quel suo atteggiamento insopportabile di disinteresse.

Andavamo al ristorante, ordinavamo, facevamo conversazione, pregustandoci tutti e due quello che probabilmente sarebbe venuto dopo.

Ma io continuavo anche a pensare a lui: scorrevo il menu e mi chiedevo se quei piatti lo avrebbero stuzzicato, tagliavo la bistecca con forchetta e coltello mentre pensavo al Doppio sul mio divano, in casa mia, quando io era là fuori, nel mondo, a fare cosa poi, a stare con una donna, il gioco più vecchio del mondo, anzi il gioco su cui si regge il mondo. Certo il mio Doppio era un vero ribelle – pensavo sorridendo – se tutti avessero fatto come lui, a trascorrere le serate sul divano, la razza umana si sarebbe estinta milioni di anni fa, cosa non avvenuta solo per merito di quelli come me. Lo biasimavo, ma non riuscivo a smettere di pensare anche a lui.

Un po’ ero soddisfatto, perché facevo cose molto più belle di quelle che stava facendo lui, e un po’ ero irritato, perché sapevo che lui a casa era contento e in realtà non avrebbe mai fatto a cambio con me.

Al momento di pagare il conto, lo sentivo che mi pensava e mi diceva “Meno male che ci sei arrivato che devi offrire tu la cena, idiota come sei avresti anche potuto proporre di fare alla romana, poi vedi come te l’avrebbe data coglione!” e mi incazzavo persino per la sua petulanza, quando invece lui, se devo essere onesto, non stava facendo niente, era solo a casa sul nostro divano.

Alla fine, andavamo a casa di lei e facevamo l’amore.

“Vorrei vederti adesso, cosa penseresti! Non hai fatto male a restare a casa?” chiedevo, mentalmente, al Doppio, in quei momenti belli sì, ma non abbastanza perché io smettessi di tormentarmi.

3.

Al termine della serata, tornavo a casa e lo trovavo, mezzo addormentato, nel nostro letto.

Lì iniziava ad interrogarmi, sorridendo sornione e soddisfatto di sonno, con voce bella calma, ancora impastata.

• Allora, come é andata?
• Bene, dai…
• Lo sapevo! Grande bomber! Aleeeeeeeee! Se non fossi già a letto, farei un balletto in tuo onore. Almeno mi hai portato un gelato per festeggiare?
• Ma va a cagare…
• Senti, piuttosto, ma come ce l’ha, depilata o..?
• Massì, lo sai, adesso ce l’hanno tutte così, ne abbiamo parlato tante volte.
• E urla? É una che urla?
• Quello per fortuna no, sai che a me piace fare l’amore in silenzio…
• Sì, come una cosa nascosta, clandestina, senza clamore… Come se bisognasse fare attenzione a non farsi scoprire…
• Esattamente, te l’ho già detto altre volte. Credo abbia a che fare col pudore, che stranamente é di gran lunga più eccitante dell’esibizionismo…
• Be’ basta con le cazzate, avete fatto sesso orale?
• Certo, regolare, sai che lo faccio sempre…
• Sì, solo con lei non lo facevi.
• Sí, con lei non ce n’era bisogno, non ci pensavamo proprio. O magari lo facevamo senza accorgercene, erano tutte carezze e baci che sembravano non finire mai.
• É un po’ che non mi parli di lei.
• Cerco di non pensarci.
• Senti, ma credi che anche lei ti amasse?
• Lo so per certo, anche se non me l’ha mai voluto dire. Anzi, forse proprio per quello. Certe cose si sentono. Gli occhi parlano molto più della bocca.
• E allora come mai è finita, un grande amore così?
• Te l’ho detto, è sempre per paura che si fanno errori così grandi. E anche più piccoli a volte. Poi, come ti ho già detto, é stata anche un po’ colpa tua. Potresti smettere di parlarmi di lei piuttosto?
• Lo sai che non posso, ancora per chissà quanto. Ma chiudiamo la parentesi. Con quella di stanotte, avete parlato un po’?
• Ci ho provato. Dopo pochino mi interrompeva sempre per dire la sua, che però non c’entrava mai molto con quello che stavo dicendo io. Sembrava di stare su facebook.
• Ahahahah… Che stronzo che sei. Hai detto anche a lei che ormai sei disilluso, che non ti trovi in sintonia con questo mondo, che ti sembra tutto fatto alla rovescia?
• Sì. Sono le cose più importanti che penso, in fondo, e mi sembra giusto condividerle con chi ha a sua volta condiviso con me la sua intimità, anche se solo per una sera.
• E lei cosa ti ha detto?
• Mi ha interrotto e, per cercare di tirarmi su il morale, mi ha detto sorridendo “Vedrai che quando incontrerai quella giusta cambierai idea, eccome se la cambierai…”
• Ahahahah. E tu?
• Ho raccolto i coglioni da terra, poi avrei voluto dirle “Ma dove cazzo vuoi che la incontri, ma guardati intorno cazzo, guarda me, guarda te, guardaci, qui dentro a questo letto, dentro a questo mondo. Cosa vedi, dimmelo, cosa vedi? Questo è il massimo che possiamo avere”. Naturalmente non ho detto niente.
• Ahahahah. Sei il solito chiesaiolo ipocrita di merda…
• Ti ho detto già svariate volte che anche noi che andiamo in Chiesa abbiamo pieno diritto di essere ipocriti, mica solo voi che non ci andate. Anzi ne abbiamo più diritto noi, visto che almeno ne siamo consapevoli, di voi che vi credete migliori quando siete solo dei presuntuosi del cazzo.
• Ahahah. Pensi che la rivedrai?
• Non lo so, non importa. Lei o un’altra, sai, non è al momento così importante.
• Che figlio di troia che sei…
• Se non lo sai tu. Ma lo sa bene anche lei, lo sanno tutte…
• Alla fine, trovi sempre tante donne che te la danno, ma mai una che ti ascolta.
• Esattamente. E in più dopo devo ogni volta tornare a casa da una testa di cazzo come te!
• Ahahahah!

4.

Mentre parlavamo, mi spogliavo e mi mettevo il pigiama. Lui mi interrogava e ascoltava le mie risposte sorridendo sempre più, come se sapesse qualcosa che io non sapevo.

Io, man mano che proseguiva l’intervista di rito, ero sempre più irritato, smarrito, sconsolato, stanco. Lui soddisfatto, incuriosito, interessato, felice, superiore a tutto.

Da ultimo, entravo nel letto e tornavo ad essere completamente coincidente col mio Doppio, centimetro per centimetro di pelle. Geometricamente congruente con lui, in tutte le tre dimensioni.

Mi addormentavo poco dopo, confondendo anche i miei pensieri e i miei sogni con i suoi.

Dopo qualche tempo, ho smesso di uscire. Ho capito che il mio Doppio era ogni volta più felice di me.

Avrei voluto essere un grande seduttore, ma ho smesso per colpa del mio Doppio.

**

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