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Un seme.

La vita è l’arte dell’incontro: dall’inizio, alla fine ed oltre.

«Le strade non portano a nessuna meta; tutte terminano in noi.» (Josè Hierro, Con le pietre, con il vento)

Aveva 50 anni. Un lavoro comune, che finiva alle cinque del pomeriggio ogni giorno. Separata, due figli ormai già grandi che non stavano più con nessuno dei due genitori. Quando pensava ai suoi figli bambini, le pareva che quei momenti appartenessero alla vita di un’altra, che quella vita familiare di allora fosse come un gioiello precipitato in un pozzo per colpa di mani maldestre.

Anche quella sera, come tanti mercoledì, era andata all’Angelo.

Prima di uscire si era guardata allo specchio, non per controllare il trucco, o, in generale, l’aspetto, che era una cosa che non voleva in fondo nemmeno vedere, anzi un ostacolo per poter vedere la vera se stessa, ma appunto cercando, come ogni giorno, di andare più a fondo, come se lo specchio fosse stato magico, tale da consentirle di capire chi fosse lei davvero… E non solo ora, ma chi fosse mai stata in passato, cosa fosse diventata ora e magari persino come mai. Da quelle stanche autoispezioni, cui si dava senza convinzione come una donna ad un uomo che non ama, usciva ogni volta indebolita e leggermente frustrata, rimandando sempre a un domani il momento in cui avrebbe potuto prendere vera coscienza di sé.

Prendeva gli uomini così, come si stacca un frutto dalla pianta appena è maturo, pronto per essere consumato, e con soddisfazione ci se lo ficca in bocca. A fare l’amore, andava sempre a casa loro. Aveva cura di sparire prima dell’alba, come i sogni migliori, senza nascondersi in fondo, ma anche senza lasciar tanto modo a nessuno di poterla rintracciare. Non era per far del male a loro che scappava, ma per non soffrire lei.

La strada è una tangente del mistero, una oscura retta che va da te all’infinito. L’Angelo stava sulla strada e la strada, quel mercoledì sera, le portò lui.

Aveva una faccia da bambino, pulita, ingenua, anche se doveva avere ormai passato i quarant’anni. La camicia era fresca, nonostante fosse ormai trascorsa quasi tutta la giornata, e il suo sguardo si posava su di lei con una delicatezza che le sembrava di non aver mai sperimentato prima.

Lo scelse con leggerezza e curiosità, senza poter immaginare che cosa ne sarebbe venuto dopo.

Dopo l’amore, anziché andarsene ad aprirsi una birra o girarsi dall’altra parte, lui andò verso di lei nel letto e la abbracciò.

La teneva stretta e lei si era inquietata, addirittura si sentiva angustiata e per un attimo pensò addirittura di essersi portata a letto uno squilibrato.

Ma non era così ansiosa e, poco dopo, si addormentò, stretta tra le braccia di lui.

Sognò un cane nero.

Questo animale la cercava, correva festoso in continuazione verso di lei, ma lei fuggiva, aveva paura, ma non di essere morsa, perché si vedeva benissimo che il cane era docile, aveva buone intenzioni e voleva solo giocare. Quando il cane si era fatto più vicino, lei gli aveva anche sferrato, con dolore, un paio di calci, per difendersi, ma lui continuava a inseguirla, a volerla raggiungere, ad andare verso di lei, per quanto lei continuasse a calciarlo e a malmenarlo…

Lei però continuava a malmenarlo e a gridargli contro, angustiata «Non è per far del male a te, ma perché ho paura io!».

Si svegliò all’improvviso, con il cuore inquieto.

Nel frattempo, si era addormentato anche lui. O forse faceva finta.

Lei scrutava il suo viso nella penombra alla ricerca di un segno, nella linea della bocca di lui sembrava tratteggiato un sorriso, ma non si sarebbe potuto dire con certezza.

Ogni volta che lei si muoveva, lui la rincalzava con le sue braccia, stringendola affettuosamente ancora più a sé, come se avesse paura che lei andasse via…

Lui aprì gli occhi. La guardava felice, aspettandosi altrettanto da lei, ma lei trovava quella felicità oscena e fuori posto, loro erano lì solo per divertirsi, per passarsi il tempo, che cosa c’era da essere così giulivi, così luminosi? Erano momenti da trascorrere di nascosto, con gli occhi bassi, senza cercarsi, come fanno due mentre commettono una rapina o un altro misfatto cui sono costretti dalla sorte ma di cui non sono orgogliosi e che, già mentre lo stanno compiendo, desiderano iniziare a dimenticare. Era, quella sua felicità, certamente un sentimento un atteggiamento mal riposto. Lei era sempre più insofferente alla radiosità di lui, provava un fastidio profondo, ma non riusciva, tuttavia, ad andarsene, cosa che avrebbe potuto fare benissimo, se avesse voluto, con una scusa qualsiasi. Ad un certo punto, iniziò a guardarlo preoccupata e indagatrice, come se avesse capito che lui sapeva qualcosa, anche se ancora non sapeva cosa. Il sentimento di contraddittorietà lascio allora pian piano il posto ad una curiosità sempre più forte, più che il disgusto ormai era maggiore la voglia di capire le … “ragioni” del cuore di lui, di come potesse guardare alla loro situazione in modo così diverso da lei, che di situazioni simili ne aveva vissute centinaia, ormai, e tutte allo stesso identico modo rassegnato, sconfitto, vinto e disilluso di chi va spigolando un po’ di amore, un po’ di sesso, tra le infinite pieghe delle vita.

Si trovò disarmata. Fu tentata di andarsene, del resto era già ormai venuta l’ora in cui lo faceva, ma era talmente incuriosita dalla diversità di lui che non avrebbe potuto. Stava immobile, ma solo perché presa da due forze uguali e contrarie: una la spingeva a continuare a scrutarlo, a cercare di capirlo, l’altra ad andarsene, a tornare nella sua vita di prima, non particolarmente bella o eccitante, ma sicura, tranquilla. Una vita che scorreva come un fiume che non cambia mai il proprio letto e ripete tutti i giorni, tutti i momenti, sempre la stessa canzone.

Dalla finestra penetrava la prima luce del mattino e il viso di lui era più chiaro. Continuava a cingerla con le braccia, sembrava stupidamente soddisfatto.

Lei si alzò. Prese una penna dalla borsetta, un pezzo di carta su cui vergò qualcosa prima di infilarlo dentro ad uno dei libri che lui aveva sul comodino.

Si vestì, andò in bagno e si guardò di nuovo allo specchio, questa volta ancora con più insistenza, come per cogliere i segni di un cambiamento, di qualcosa di diverso che magari c’era in lei rispetto all’ultima volta che si era guardata. Non riuscì a scorgere nulla, ma si scostò dallo specchio sorridendo stancamente, con la curiosità ancora dentro di lei per quella notte diversa.

Prese le sue cose e, facendo piano, senza svegliarlo, aprì la porta e uscì.

Il sole era un disco rosso sulla linea dell’orizzonte che lei, per quella mattina, giudicò un po’ troppo timido. Se avesse potuto, avrebbe voluto dirgli di sbrigarsi, di non tenerla tanto lunga, di uscire, splendere e illuminare tutto, senza aspettare oltre…

Infilò la chiave nella macchina, mise in moto e cominciò a guidare lentamente, in modo automatico, tenendo lo sguardo calmo sulle cose lontane.

Si accorse che stava sbagliando di nuovo e ne era felice. Poi quasi senza accorgersene pensò «Ha ragione lui, non bisogna mai rimandare quando c’è da fare una carezza».

Sorrise.

Un seme era stato piantato nel suo cuore. Nei giorni a venire avrebbe scoperto che cosa ne sarebbe nato.

Decise di non parlarne con nessuno, perché niente tiene caldo come un nuovo segreto ben custodito.

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