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Ospedale.

Una storia lunga una vita

1
«Buongiorno. Per favore, la camera 104?»
«Al secondo piano. Appena esce dall’ascensore, il corridoio a destra»
Aveva appuntamento alle sedici precise. Lui non aveva voluto che si presentasse senza appuntamento, altrimenti sarebbe andata anche prima.
Non stava molto bene, lui, e aveva espresso il desiderio di incontrarla di nuovo.
La vide non appena si affacciò alla porta della stanza. Lui stava sul letto, appoggiato contro la testata dove aveva sistemato il cuscino, che quale infermiera benevola gli aveva sprimacciato da poco, ed era intento a conversare piacevolmente con il suo vicino di stanza.
Lui era una delle poche persone cui fosse rimasto il piacere della conversazione, che non lo aveva delegato alla televisione o ad altre abitudini: amava ascoltare e replicava sempre amabilmente, come se non fosse interessato ad altro che a quegli scambi, anche quando le tematiche non erano propriamente alte o particolarmente interessanti, ma riguardavano minuzie della vita quotidiana.
Era probabilmente per quello che si era fatto voler bene e che era giudicato da tutti un uomo amabile come ormai pochi.
Quando incontrava una persona, per prima cosa ne cercava il viso per squadrarlo sorridendo dolcemente, facendo una prima, fondamentale scansione dello stato emotivo del suo interlocutore. Poi non se ne dimenticava, di quella persona, come fanno tutti, ma finché era presente le dedicava tutta la sua attenzione, come se lei fosse la cosa più importante o comunque se la sua presenza fosse importante. Sembrava, anzi era genuinamente interessato a lei, alla sua vita, a differenza di tutti gli altri, che evidentemente la sussumevano nel grigiore generale, o non se ne accorgevano, tutti presi dalle loro vite, che credevano corse a ostacoli o rebus inestricabili. Oggi purtroppo sembra avere ragione solo chi corre, ma lui aveva sempre rifiutato questo assunto e si era fermato. Era devoto alla lentezza, diceva che solo con la lentezza e nella lentezza si possono ascoltare le persone ed accoglierle.
Lei era bellissima. Alta, carnagione scura, giovane. Grandi occhi neri, forse una magrebina. Un seno prosperoso. Sorrise, con una punta di imbarazzo. Lui la guardò subito in faccia, come faceva sempre, sorrise di gusto – era davvero felice di vederla – e la invitò ad entrare.
Si era acconciata per quello che, a quanto si diceva in città, avrebbe potuto essere l’ultimo saluto ad una persona con cui aveva condiviso la propria intimità, non solo fisica. Con lui aveva parlato infinite volte della sua vita, dei suoi errori, delle sue speranze. Era quasi sempre dopo l’amore che la serata, il pomeriggio, il tempo con lui incominciava. Dopo l’amore, che … usavano per connettersi ed entrare in un’altra dimensione, in un’altro spazio e tempo di cui facevano evidentemente parte solo loro, potevano parlare e dirsi tutto quello che volevano. Era come se fossero partiti su un tappeto volante, dal quale guardavano alle loro vite dall’alto, da lontano.
E come sapeva ascoltarla, lui. Non la giudicava mai, nemmeno quando lei gli raccontava pensieri o azioni poco nobili della sua vita, che però le appartenevano, facevano di lei quello che era. Erano i suoi lati oscuri, li aveva accettati, ma non sarebbe riuscita a parlarne con nessun’altra persona, solo con lui. Perché solo lui ascoltava senza dire nulla, senza proporre idee, innovazioni, cambiamenti. Soprattutto, dopo averla ascoltata esporre le cose di cui lei si vergognava di più, lui continuava a trattarla esattamente come prima, a volerle bene come e più di prima.
Ma la cosa che lei adorava di più di lui era che lui non le offriva, non le proponeva mai soluzioni. Lei si limitava a raccontargli la sua vita, una vita imperfetta, piena di errori, di cose andate in un modo ma che avrebbero potuto andar meglio, o esser gestite meglio, di ricordi, di rimpianti, di scelte non sempre azzeccate o condivisibili.
Quando parlava di queste cose con gli altri, amici, amanti, parenti, amiche, del cuore o no, invariabilmente si sentiva proporre soluzioni alternative oppure si sentiva dire cose come «la prossima volta dovresti» oppure «la prossima volta cerca di» o «perché non hai pensato a». Una volta, addirittura, confidandosi con un uomo con cui era entrata in intimità si era persino sentita dire «Ti ho già detto una volta come devi fare in queste situazioni, se non mi ascolti allora che cosa mi vuoi sempre raccontare queste cose da fare? Parlare con te è inutile».
Con lui no, parlare non era mai inutile, anche se lui sembrava solo limitarsi ad ascoltare. Lei però sapeva, quando iniziava a parlare, che quando avrebbe finito – di parlare – si sarebbe sentita meglio. E la cosa strana era che lui non faceva nulla se non ascoltare. In fondo, era proprio per questo che si sentiva meglio, perché lui ascoltava. Gli altri non ascoltavano, dopo due minuti pretendevano di «avere capito» e volevano «fornire soluzioni», come la conversazione fosse un juke box: uno infila una monetina e l’apparecchio inizia a suonare una canzone. Ma una conversazione tra due persone assomiglia più a un duetto, ognuno suona la propria canzone e l’altro non gli risponde dicendo di correggerla, perché ogni canzone è bella così, e si limita a suonare la sua.
La sincera, autentica, attenzione di lui la faceva sentire importante o almeno le faceva sentire che lui le voleva bene davvero, anche se era evidente che una buona parte del suo interesse fosse sessuale e non avesse intenzione di disegnare una relazione impegnata. Anzi, lui le aveva detto più volte espressamente che non se la sentiva di legarsi di nuovo ad una donna, laddove «di nuovo» significava dopo la sua separazione.
Lei si chiedeva come mai avesse potuto separarsi un uomo del genere, che la faceva sentire così bene semplicemente ascoltandola ed accogliendola. Glielo aveva anche chiesto e lui, con la sua consueta genuinità, le aveva detto che prima della separazione non era una persona così evoluta come ora, ma un uomo molto più egoista, mentalizzato, centrato su se stesso e non così aperto verso gli altri, incapace di una relazione autentica, ma più che altro alla ricerca di un suo «pubblico». Dipingeva quella versione deteriore di se stesso senza vergogna, senza rimpianto, come tipico di chi ha attraversato un processo di evoluzione autentica.
In quel preciso momento, mentre si avvicinava a lui, la colse questo pensiero «Non troverò mai più un uomo simile, un uomo che mi ascolta così, non mi giudica, non mi vuole diversa, non vuole darmi soluzioni. Non avrò mai più dove riporre il mio cuore». In fondo, è sempre anche per egoismo che ci dispiace della morte degli altri.
«Dolce anima mia» – mentre era quasi ormai al bordo del letto, lui riuscì a dirle le parole che non le aveva mai detto.
Lei si commosse e gli occhi le si inumidirono. Non sapeva cosa dire, ma sapeva che con lui non c’era bisogno di parlare per forza, si poteva benissimo anche tacere. Lui teneva le braccia sopra al lenzuolo, lei appoggiò la sua mano contro quella di lui, continuando a guardarlo. Lui sorrise, ricambiando lo sguardo.
«Sono felice di avere fatto qualche tratto di strada insieme a te» disse lui, lentamente, con convinzione e appena una punta di commozione nella voce.
Lei accennò un gesto di assenso, sorridendo e scuotendo appena il capo.
Quello era il suo commiato. Apparentemente banale, in realtà non lo era. Chi può dire di aver davvero camminato insieme alle persone che gli sono state accanto nella vita? La maggior parte di noi vive concentrata su se stessa, senza avere una connessione reale con i sentimenti delle altre persone, che sono solo oggetti che scivolano accanto, non percepiti, non visti, non sentiti… L’uomo di oggi raramente cerca una connessione autentica con gli altri, molto più spesso cerca semplicemente un suo… pubblico, a servizio del suo egoismo e della sua centratura egoica. Quelle rare volte che una persona ti fa davvero compagnia nei tuo sentimenti, ti comprende senza giudicarti, ancor meno di quello che ti giudichi già da solo, ti ascolta davvero, inietta una tale leggerezza nella sua vita.
Ecco, la parola chiave era quella. Riusciva, lui, ad essere leggero, ad avere un tocco delicato, anche adesso, che stava morendo. Sembrava se ne andasse così, solo per un attimo, o per la stagione, come gli uccelli, che poi tornano l’anno successivo.
«Chissà se ci rivedremo, e dove» – pensava lei – «ma se lo faremo, fosse anche tra migliaia di anni, sarà come non esserci mai separati nemmeno per un attimo. Riprenderemo a parlare ed ad ascoltarci come se ci fossimo lasciati pochi minuti prima.»
Lui le prese la mano, se la portò alla bocca e ve la premette contro, poi la riportò giù, in basso, sulla coperta e, continuando a tenerla ristette così, senza dire nulla.
La camera bianca odorava di fenolo, a lei sembrava che lui meritasse, per i suoi ultimi giorni, una sistemazione più nobile, pari a quella della sua anima, e non un’anonima stanza, uguale a tutte le altre, e financo – a ben pensarci – ad uno stereotipo, condivisa con un’altra persona. Lanciò uno sguardo e abbozzò un sorriso all’altro degente, che lo ricambiò con inusitato interesse, atteggiamento che le fece avvertire una punta di inquietudine. Nel corridoio tinniva un carrello metallico di medicinali, fiale e attrezzature trascinato da un’infermiera.
Lui continua a tenere la mano di lei con la sinistra. Ad un certo punto, la prese anche con la destra e la scosse leggermente. Significava che la visita era terminata. Lei avrebbe voluto parlare, sia della vita di lei, sia, soprattutto, della morte di lui, come avevano sempre fatto, affrontando qualsiasi argomento senza difficoltà, anzi con autentico divertimento, senza ostacoli, ridendoci sopra, ridendosi anche in faccia. Capì che, se fossero stati di nuovo soli, a casa di uno dei due, lo avrebbero persino fatto, ma in quel luogo, in quel momento, non sarebbe stato possibile, avrebbero dovuto tenere piegate le ali del dialogo, ormai non ci sarebbero più state altre conversazioni del genere tra loro.
«Dai. Mi ha fatto piacere incontrarti, ma ora devo andare» – disse lei. Lui sorrise e le strinse di nuovo la mano, per diversi secondi, senza dire nulla. Poi replicò: – «Torna a trovarmi nei prossimi giorni, se saremo soli potremo parlare un po’. Però ricordati di prendere sempre prima appuntamento per favore, non voglio che rischi di non trovarmi o di non essere pronto…»
Lei sorrise, era abituata a queste sua stranezze, era come riconoscerlo ogni volta. Lasciò la mano di lui, poi si allontanò camminando all’indietro per continuare a guardarlo e a sorridergli fino all’ultimo. Poi scomparì dietro alla porta aperta.
2
– «Adesso mi devi spiegare…» Era il suo compagno di stanza che, sorridendo divertito, gli aveva parlato.
Lui gli aveva sorriso indietro senza dire nulla.
Così lui continuò – «Questa è la sesta donna che viene a trovarti. A tutte hai detto le stesse cose, le stesse parole»
– «Dolce anima mia!» e sorrise di nuovo, quasi soffocando una risata. «ormai so già che lo dirai e anche più o meno quando lo dirai. Specificò continuando a sorridere «Quello che mi stupisce ogni volta, a questo punto, è che tutte si illuminano, come se fosse vero, come se tu fossi sincero.»
Poi concluse «È proprio vero che quello che vogliono da noi le donne sono solo bugie…»
«Ma io sono complemente, del tutto e autenticamente sincero, te lo garantisco» rispose lui.
L’altro scoppiò in una risata.
Poi lui continuò «Fai come vuoi, io sono sincero, io ho voluto bene davvero a tutte le mie donne.»
– «Anni fa, ho avuto un periodo difficile, è come se loro fossero arrivate ad aiutarmi, richiamate da una forza invisibile. Non te lo so spiegare bene nemmeno io, ma ora sento che io appartengo davvero a tutte loro…» Rimase in silenzio per qualche istante poi concluse «Io sono di tutte quelle donne, loro sono le mie amazzoni, mi hanno tenuto in vita, si sono prese cura di me quando ne avevo bisogno e io ora sono legato a loro per la vita»
Poi si rabbuiò e aggiunse, con un sorriso triste «Per quel poco che me ne rimane».
«Fai come vuoi, io non ci credo, non mi pare possibile amare davvero così tante persone» disse il compagno.
«Eppure è così, chi non ha vissuto quel che ho vissuto io non può capire. Loro mi hanno fatto sentire uomo nei momenti in cui ne avevo bisogno, io questo non lo posso dimenticare. Io le ho ascoltate, considerate, dato loro attenzione quando a loro volta ne avevano bisogno, le ho fatte sentire donne.»
«Ma non ti sei affezionato davvero a nessuna di loro, nessuna ti ha fatto venire voglia di sceglierla, di eleggerla a compagna, di avere con lei un rapporto davvero speciale»
Lui rimase in silenzio per un po’. Quell’osservazione, che, a quel punto, appariva persino banale, lo aveva colpito.
– «In realtà, c’è stata una tra loro alla quale mi ero davvero arreso, con la quale sarei andato fino in fondo»
– «E quale sarebbe, delle sei?»
– «Nessuna. Non è ancora venuta, non so nemmeno se verrà, non credo. Adesso ha una sua vita, appartiene ad altre persone, appartiene a quella vita. L’ho lasciata andare tempo fa, con dolore, ma senza screzi, senza litigi, con tanto affetto, con la consapevolezza che ognuno di noi due era chiamato a qualcosa di diverso. Tutti e due ci amavamo, io non l’ho mai detto a lei, e lei non l’ha mai detto a me, ma solo perché non ce n’era proprio bisogno, sarebbe stato completamente pleonastico. Però nella vita ci sono cose più grandi dell’amore o, se vuoi vederla in questi termini, non sempre l’amore basta. Io e lei eravamo chiamati a due cose diverse»
Si fece di nuovo silenzioso, meditabondo. Poi sorrise stancamente e, dopo qualche istante, aggiunse «Io, anche se allora non lo sapevo ancora, a morire. Lei a vivere».
3
Tre giorni dopo, sulla soglia comparve una donna molto giovane. Alta, coi capelli lunghi, aveva un paio di occhi che non si potrebbero definire in altro modo che estremamente eloquenti.
Lei, quei suoi occhi, li accendeva, spegneva, metteva sotto traccia, cambiava in continuazione, a seconda del suo umore, di quello che, evidentemente, le balenava in quel momento nella mente e, soprattutto, nell’anima.
Il primo sguardo che gettò nella camera era divertito e, quando lo vide, subito si accese ancora di più. Riuscì perfino a ridere, piegando la testa verso il basso come facendo finta di vergognarsene un po’.
Lui non la scorse subito, impegnato com’era a cercare qualcosa nel cassetto del comodino, che era collocato dal lato opposto. Lei gli si avvicinò senza dire nulla, quando fu a lato del letto tuttavia lui ne percepì la presenza, allora la sua reazione fu quella di lasciar perdere il comodino e accasciarsi, sorridendo, sul letto in cui già si trovava.
Lei aprì ancora di più il suo sorriso e continuò a guardarlo senza dire nulla. Lui era tutto sotto alla coperta, perché aveva un po’ freddo, ma soprattutto perché era rimasto sorpreso di vedersela davanti e quella sensazione lo aveva un po’ rallentato, quasi immobilizzato, come tutte le volte in cui si trovava di fronte a qualcosa di più grande di lui: non che avesse paura ma al momento sentiva che era preferibile restar fermo, ad ascoltare, a vedere che cosa sarebbe accaduto.
Lui aveva anche le mani sotto alla coperta, così lei ci infilò una delle sue per prendere una di lui. Tenendolo per mano, si guardò indietro per vedere se c’era a portata una sedia, che in effetti c’era, così, senza lasciarlo, un po’ sedendosi, un po’ tirandola verso di sé col sedere, ci si adagiò sopra.
Lui era pieno di felicità e di dispiacere al tempo stesso. La felicità era per lei, il dispiacere per il fatto che loro due erano là e non altrove. La stava guardando con questi due sentimenti, ma lei aveva capito, anzi probabilmente lo sapeva già da prima di entrare, quali sarebbero stati i sentimenti di lui, e di lei stessa pure.
Nessuno dei due diceva niente. La coperta sobbalzava un poco all’altezza del petto di lui, segno che le due mani, là sotto, stavano accarezzandosi dolcemente ma in continuazione.
Ad un tratto lei impallidì leggermente e, al tempo stesso, il suo viso si coprì di chiazze rosse. Lasciando andare lentamente la mano di lui, senza dire nulla andò dal comodino e si mise a frugare prima nel cassetto e poi nello sportello. Trovò un pacco di biscotti ancora intero, lo aprì e ne mangiò voracemente tre, quasi ridendo mentre lo faceva, piegando la testa verso il basso come per nascondere il viso. Prese il pacco, tornò a sedersi dov’era seduta prima, appoggiò il pacco a terra, rinfilò la mano sotto la coperta e riprese a stringere quella di lui.
Lui, che faceva sempre storie per mangiare, accennò con gli occhi al pacco dei biscotti, lei ne prese uno e glielo ficcò in bocca. Lui iniziò a masticare soddisfatto, sorridendo con tutto il volto, come nessuno là dentro lo aveva mai visto sorridere prima.
«Grazie che sei passata». Lei annuì e gli serrò di nuovo, con forza e dolcezza insieme, la mano.
Più tardi se ne sarebbe andata e quelle furono le uniche parole pronunciate in tutto quell’incontro.

 


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