Caddi addormentato sul divano.
Non so quanto dopo, un suono mi svegliò. Uno spostamento d’aria in cucina, con un cigolìo sordo. Difficile divisarlo nel dormiveglia. Com’è, come non é, fatto sta che pensai al frigo. Anzi no, non lo pensai, lo vidi con l’immaginazione, in testa, una figura in un lampo, bella grigia, più vera della realtà.
Di chi fosse la mano che lo aveva aperto – sarebbe stata una domanda interessante per uno sveglio, ma io non lo ero.
Non si sentì più nulla. Almeno credo, su questo non giurerei.
Abbassai il capo – che, senza avvedermene, avevo alzato pochi millimetri, come per ascoltare meglio – e il sonno mi fece di nuovo suo.
Adesso non mi chiedere quanto tempo passò da allora: io vivo sempre nel presente. Di fatto, ad un certo punto, un odore di grasso bruciato mi fece di nuovo aprire gli occhi.
Fissai il pavimento, come avesse contenuto una risposta, e mi chiesi cosa stesse succedendo. E chi ci fosse nella mia cucina.
Mi chiesi, soprattutto, se avessi dovuto occuparmene. É mio privilegio ignorare quasi tutto quello che accade – almeno io la vedo così.
Guardai ora la spalla del divano, ora il pavimento. Per diversi minuti, incerto sul da farsi.
Dalla cucina cominciò a venire un cinguettìo di posate.
Mi levai. Scesi dal divano. Mi diressi di là, in cucina, col mio consueto incedere calmo. Al mio posto, nel mio piatto, fumanti carni eburnee.
Mangiai un boccone, poi lo guardai.
Tenendo gli occhi fissi su di lui, gli domandai col pensiero:
– “Quand’è che crepi, che voglio diventare più famoso di Achiko?”.
Lui mi sorrise, come avesse capito.
Un po’ mi dispiacerebbe per lui, ma i padroni di cani sono come le ex mogli: meglio da morti.
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